Corte di Giustizia Europea: errore nel Bando Monti, ma non discriminante.
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Corte di Giustizia Europea: errore nel Bando Monti, ma non discriminante.

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La clausola sulla cessione gratuita della rete è contraria al diritto comunitario, ma l’impianto concessorio è salvo.
È l’ultimo responso della Corte di Giustizia Europea che ha passato al microscopio una clausola inserita nel bando Monti del 2012, quella appunto che obbligava i concessionari a cedere gratuitamente ai Monopoli i beni strumentali alla raccolta, quando la concessione arrivava a termine, o nei casi di revoca e decadenza.
La norma aveva fin da subito preoccupato i bookmaker paralleli che intendevano partecipare alla gara: Piazza Mastai, rispondendo ai dubbi sollevati, ne aveva dato un’interpretazione molto ampia: «prevede la cessione del solo uso, non della proprietà o dei diritti di sfruttamento economico dei beni, sia materiali che immateriali, costituenti la rete di gestione e raccolta del gioco per un periodo la cui durata sarà determinata da AAMS».
Una definizione che sembrava ricomprendere beni come brand, software e database. Come dire che, scaduta la concessione del bookmaker, i Monopoli sarebbero diventati titolari perfino del suo brand. Avrebbero avuto, cioè, il diritto di utilizzare quel marchio per conto proprio. Visti i nuovi dubbi, Piazza Mastai aveva poi precisato: “i criteri di esercizio della devoluzione, compreso il luogo di utilizzo dei beni devoluti, saranno stabiliti caso per caso”. Chi aveva scritto il bando aveva, in realtà, obiettivi diversi: evitare che, scaduta una concessione, si interrompesse la raccolta, e impedire che il concessionario staccato dal totalizzatore continuasse l’attività in maniera illecita.

In realtà quella norma, pian piano, si è svuotata di significato. O forse i Monopoli le avevano dato un contenuto troppo ampio, prendendo come esempio le clausole analoghe inserite nelle concessioni degli altri giochi. Fatto sta che, come ha chiarito qualche mese fa la stessa Agenzia Dogane e Monopoli, nel caso delle scommesse questa clausola riguarda solo «la porzione di rete che collega il concessionario al totalizzatore nazionale». Vale a dire, beni come la connessione al sistema centrale di controllo e lo spazio sul server Sogei. E che ovviamente hanno un valore pressoché nullo, tanto che la clausola non è mai stata applicata. Addirittura, il Governo con l’ultima Stabilità ha preferito cancellarla. Intanto però in questi anni decine di giudici – tra cui anche la Cassazione – hanno fermato i processi avviati contro i CTD e rinviato le carte alla Corte di Giustizia Europea. La sentenza di giovedì scorso riguarda un centro Stanley del frusinate, ma anche altri bookmaker hanno ottenuto gli stessi risultati. I giudici comunitari, quindi, hanno dovuto stabilire se una clausola inesistente abbia o meno provocato delle distorsioni nel nostro ordinamento. E peraltro hanno concluso che in alcuni casi era giustificata. Ad esempio, quando il concessionario ha violato qualche regola e incappa nella revoca o nella decadenza. Allora la norma può anche avere un obiettivo sanzionatorio, pienamente condivisibile.

Non si salva invece quando la concessione giunge a scadenza naturale: con il bando Monti sono stati assegnanti titoli di durata inferiore rispetto ai precedenti – e quindi c’è stato meno tempo per ammortizzare gli investimenti – in questo caso sarebbe stato più giusto prevedere un indennizzo, una cessione non gratuita ma a prezzi di mercato, della rete.

In ogni caso, almeno, la clausola non sembra discriminatoria, visto che si applica indistintamente a tutti i partecipanti, a prescindere dalla nazionalità. Anche se poi i giudici comunitari hanno rimesso la questione ai colleghi italiani che dovranno esaminare il quadro concreto. La stroncatura è sul fatto che la clausola era formulata in termini troppo vaghi e incerti, contrastava con il principio di trasparenza, e ha scoraggiato la partecipazione alla gara.

Il primo effetto sul nostro ordinamento la sentenza della CGE lo ha già avuto: meno di 24 ore dopo un giudice italiano, il Tribunale del Riesame di Firenze, l’ha già recepita (le motivazioni non sono state ancora pubblicate) e ha disapplicato le norme italiane in favore di quelle comunitarie.

Di elementi insomma ce ne sono perché Stanley reclami il quarto successo, dopo le sentenze Gambelli, Placanica e Costa-Cifone. Daniela Agnello, legale della compagnia, ha sottolineato che il bando «prevedeva misure non proporzionate, poco chiare e poco trasparenti, rimesse alla discrezionalità dell’Amministrazione. La Società è stata ancora una volta ostacolata e privata della sua capacità concorrenziale e ha subito, tra l’altro, i danni conseguenti al sequestro dei centri e alla sospensione prolungata dell’attività». E quindi ha affondato il colpo: «Negli ultimi 15 anni il sistema concessorio italiano è stato caratterizzato da tre gare censurate dalla Corte di Giustizia». Fortemente critico anche Maurizio Ughi, amministratore unico di Obiettivo 2016, che si è limitato ad un’amara costatazione dei fatti: «Lo Stato dà la dimostrazione di superficialità nell’affrontare il settore delle scommesse. Sbandiera di detenere il monopolio di diritto, ma poi di fatto numerosi punti transfrontalieri riescono a stare sul territorio in maniera indisturbata». In un’intervista ad Agimeg ha chiesto che «lo Stato ci metta coraggio, ma soprattutto la faccia, per risolvere l’annoso problema della doppia rete di accettazione: serve una rete unica di giochi». Invece, al momento, “non c’è una strategia, ma si naviga a vista e in questo modo lo Stato continua a soccombere rispetto a chi ha una visione più a lungo termine”.

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